venerdì 22 febbraio 2013

Promised Land


L’inquadratura dell’ “altro io”

Riflessioni su PROMISED LAND


Gus Van Sant ha un gusto preciso ed elegante per le inquadrature, prestando sempre una forte attenzione al collegamento con la storia che raccontano (da non dare sempre per scontato); credo sia grazie a questo che lo spettatore attraverso i personaggi può seguire delle vere e proprie “personalità” in gioco e non dei riferimenti generali.

La sensibilità della scrittura e della regia di questo film (soprattutto sulla recitazione) rende possibile stare dalla parte di Steve (Matt Damon) per tutto il tempo della narrazione pur sapendo fin dall’inizio che lavora per i “cattivi”, la Global una società  “da 9 miliardi di dollari” che ha l'obbiettivo di sistemare delle strutture di estrazione del gas in una cittadina di campagna.
Perché siamo dalla sua parte?
Perché sentiamo come un brivido di fastidio quando Dustin Noble, l’Ambientalista di turno, si presenta con una storia strappalacrime, cercando di rovinare le idee in cui crede Steve?

Steve, e Matt Damon con lui, è davvero convinto del suo mestiere. Lo dichiara con sincerità all'inizio del film, raccontando della morte economica sociale della cittadina  da cui proviene in seguito alla chiusura di uno stabilimento, concludendo il racconto con la battuta:
"io non gli vendo gas naturale gli vendo l'unica speranza di ricominciare".
La back story molto appropriata del protagonista ci permette di credere a nostra volta alla sua ingenuità, pensando:
“forse ha ragione! A quelle persone senza niente, povere, servono i soldi delle strutture per l’estrazione del gas, il rischio ne vale!”
sentiamo che la naturalezza prestata da Matt Damon al personaggio Steve, sta conquistando anche noi, la cosa probabilmente in poco tempo ci fa anche sentire un po in colpa.
Vorremmo stare dalla parte di Steve ma essere contrari al tipo lavoro perpetrato dalla sua azienda. Non capiamo perché il film ci presenti un personaggio così sincero per poi farlo combattere dalla parte sbagliata.

Questo piccolo dilemma interiore che nella prima parte del film investe lo spettatore, viene risolto facilmente: 
accettiamo il fatto che Dustin (l’Ambientalista) sia irritante e crediamo che la regia non ci permetta di empatizzare con lui per farci stare vicino a Steve, portarci nella storia della sua presa di coscienza.  La causa per cui lotta è sbagliata e tramite un percorso Steve aprirà gli occhi,  forse in tempo per redimersi.
Il problema è che questa riflessione iniziale è giusta solo in parte.

In realtà come nei libri scritti bene i sentimenti e gli elementi narrativi che la regia ci suggerisce all’inizio del film sono strettamente funzionali a cogliere la sottile sfumatura morale del finale in cui “…what once seemed black and white turns to so many shades of gray..” (Blood Brothers di Springsteen citato anche nel film),
il film ci offre un'impostazione mentale dove noi inizialmente possiamo distinguere il bene dal il male, ma durante lo sviluppo narrativo ci porta non solo a vedere sfumare questa distinzione ma anche a capire che non è la cosa più importante.


Una delle inquadrature più simboliche del film è il mezzo busto su Steve seduto al tavolo del colloquio al ristorante (prime scene del film). 
Dietro di lui si vede la sua immagine di spalle riflessa nello specchio e, sempre nel riflesso, davanti alla sua immagine di spalle, il suo interlocutore. 

Questa inquadratura sembrerebbe uno schema. 
Nel pratico noi vediamo Steve e il suo riflesso o meglio il suo “alter ego” (passatemi il termine) di spalle a lui che conversano, Steve con il superiore che gli sta offrendo un ruolo importante e l’alter ego con il riflesso del suo superiore. 
Non credo che il valore dell’inquadratura sia l’originalità ma semplicemente l’estrema coerenza con il personaggio che all’inizio del film viene presentato, Steve.
Sappiamo bene che durante la narrazione Steve avrà due uomini dentro di sé, uno che lo convince ogni giorno di essere una buona persona, perché crede che il suo mestiere può effettivamente migliorare la vita degli altri, e l’altro che fin dall’inizio gli pone il dubbio di non farsi semplicemente le domande giuste;
Steve contiene in realtà due personaggi in uno?
No, Gus Van Sant fa di più, crea davvero due personaggi.
Potrebbe essere che il personaggio dell’Ambientalista sia allo stesso tempo un “altro io” di Steve oltre che colui il quale per ovvie ragioni spinge avanti la storia? Io dico di si.

Ripensando alla sceneggiatura trovo emblematica la scena in cui dopo aver montato le strutture della fiera Steve si reca al solito pub del villaggio, soddisfatto e nuovamente speranzoso. Incontra Dustin seduto solo al bancone, il quale per la prima volta nel film è stanco e un po’ sotto tono, Steve intrattiene una veloce conversazione con lui peccando un po’ di arroganza e offrendogli addirittura una birra (come fosse elemosina), solo che alla fine del dialogo arriva Alice la maestra che Steve conosce le prime sere di permanenza, con la quale, si percepisce, Steve sente un legame. 
Alice è li per uscire con Dustin il che in pochi secondi ribalta completamente il gioco di forza su cui era basata quella scena. E’ doloroso per Steve quel momento perché è come se Alice credesse di più alla storia commovente dell’Ambientalista piuttosto che alla sincerità e all’essere “una brava persona” di Steve, quindi la vediamo uscire con l’alter ego (dustin) che si pone le domande giuste e non con lui. In quello snodo narrativo Steve sente che l'Ambientalista si vuole sostituire al suo essere protagonista ma non capisce ancora perché.
Quindi quell'inquadratura dedicata a Steve nel dialogo d’apertura del film (img sopra) racchiude uno schema mentale che il personaggio dovrà affrontare durante la storia. Nell'immagine c’è uno Steve che parla alle persone e ce ne’ un altro apparentemente opposto e di spalle che parla alle stesse persone, riflesse, con cui parla il primo. Potrebbe essere il riassunto della sfida tra Steve e Dustin che provano a convincere le stesse persone?

Mentre queste riflessioni s’intrecciano la narrazione avanza, e nel momento del colpo di scena, scopriamo che l’elemento dell' alter ego (l’ambientalista) spinge Steve a capire che si poneva le domande sbagliate.
Lui non deve prendere una decisione al posto della gente di quella cittadina e non deve neanche pensare a cosa sia giusto o sbagliato, questo perché tutto durante la narrazione gli ha suggerito che esistono “.. so many shades of gray..”:
L’anziano insegnante di scienze, ex ingegnere esperto, ammette che può permettersi di essere schierato perché comunque gli resterebbe poco da vivere (o da soffrire).

La Global in realtà insabbia davvero il fatto che le operazioni di frattura della roccia ed estrazione del gas possono portare a problemi tragici per la terra.

Entrando in contatto con la gente del posto durante le sue “visite di convincimento” coglie una certa superficialità sia dei favorevoli sia dei contrari.

Forse l’unica cosa che il vero Steve deve fare quindi per andare avanti è dire la verità e forse la storia ci porta a questa conclusione, grazie a questa sfida con il suo alter ego (o con se stesso?).
Il discorso finale di Steve rimane quindi semplicemente un “essere sincero” e niente di più, non  ci sono a parer mio da parte del protagonista dei veri giudizi ne verso la gente ne verso l’azienda che rappresenta.


Come scritto sopra le idee di sviluppo della storia vengono abbastanza rimescolate durante la narrazione. La regia cura bene questo rimescolamento stando molto vicino ai personaggi con la macchina da presa e con i continui cambi di fuoco.
Ci sembra sempre di empatizzare con chi parla anche se non siamo d’accordo con quello che dice, il che è una scelta e non una combinazione casuale. A questo proposito è incredibile scoprire che Gus Van Sant ci spinge ad essere irritati verso il personaggio dell’ambientalista (l’unico a parer mio con il quale non si empatizza) semplicemente per preparare il terreno dentro di noi, alla consapevolezza verso la quale ci porta il colpo di scena.

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