sabato 23 febbraio 2013

Detachment


Abbracceremo la nostra Erica

Riflessioni su Detachment (Il Distacco)



Detachment è il film del dolore.
Il montaggio e la macchina da presa non ti lasciano scampo, sei attaccato al personaggio, quasi inchiodato al suo primissimo piano, poi ti mostra gli ambienti con la calma di una carrellata fantasma per esempio nei corridoi della scuola superiore dove è ambientato il film.
Il protagonista Henry Barthes ha gli occhi tristi sia nella finta intervista che ci accompagna per tutta la narrazione sia durante le azioni che si susseguono nel film. 
Due elementi espressivi quindi sono le colonne portanti utili a raccontare il dolore e di conseguenza anche il tema del film.

Il Primo è la scelta delle inquadrature, soffocante e senza scampo, i primissimi piani di questo film sono volutamente nitidi, lasciando passare tutta la durezza dell’immagine dei personaggi inquadrati.  Il film è un continuo cambio d’inquadrature traballanti, sporche, dettagli estremi dove devi faticare a riconoscere gli oggetti, non fai in tempo a renderti conto delle immagini che le piccole tragedie o le azioni sempre più tristi, sono già avvenute.
Guardando il film si ha l’impressione che questo uragano di ferite sia raccontato come se fosse tutto un flash back, un incubo; dopo poco tempo si ricollegano i pezzi e ci si accorge che è in realtà tutto un flash back come si evince dall’intervista di Henry.

La coerenza del regista lo porta avendo già impostato tutto il film come un ansiogeno racconto passato, ad aggiungere nel flash back del flash back il viraggio rosso delle immagini, rendendo le immagini dell’infanzia di Henry estrema espressione della sua tristezza e del suo disagio.


Il Secondo elemento, complementare al primo, si basa sulla recitazione e sulla fisicità degli attori.
Occhi tristi. Gli attori hanno, portano, prestano, fingono gli occhi tristi e lo fanno bene anche quando stanno sorridendo. Non è una banalità perché a parer mio oltre a dipendere dalla bravura o dall’esperienza dell’attore dipende anche da una sua caratteristica intrinseca che quindi un regista non può costruire ma deve cercare e scegliere, non a caso Micheal Wincott era stato considerato per il ruolo del protagonista.
Il lavoro degli attori passa attraverso due tracce, il realismo e lo stomaco, eppure è preciso e soppesato, il ritmo è dato da Adrien Brody, il quale comunica tanto sconforto e pericolo in tutti gli aspetti della sua vita quanto capacità di proteggere gli altri e di farsi valere.
Il combinare quella recitazione con quella scelta registica è praticamente “lo sconforto”, sentirsi sporchi nel mondo sporco. Esempi?

Mr. Charles Seaboldt redarguisce la ragazza asiatica senza reggiseno, primi piani mossi e dettaglio delle foto usate da Seaboldt per convincere la ragazza a coprirsi tra cui un close up di una vagina infetta.
La scena in cui l’insegnante Sarah Madison, viene sorpresa dalla più acuta aggressività e volgarità dalla madre di una ragazza, quest’ultima era stata spedita a casa dopo averle sputato in faccia.
La dottoressa Doris Parker (splendida Lucy Liu), psicologa dell’istituto, sclera davanti ad una ragazzina stupida ed arrogante che nel futuro vuole solo seguire il suo ragazzo “musicista” di una band.
La Principal Carol Dearden appena rimossa dal suo incarico, dà un’annuncio tramite l’interfono a tutta la scuola mentre è stesa inerme dal pavimento del suo ufficio.



La sceneggiatura sviluppa intorno al protagonista una trama parallela legata alla sua vita privata e al rapporto protettivo che sviluppa nei confronti di una prostituta di 14 anni, Erica. Questa sotto trama porta all’unico piccolo momento felice della storia, quel forte e catartico abbraccio fuori dal mondo, un momento talmente isolato dal tenore emotivo del resto del film che forse s’ingigantisce, diventa un segno divino per sorridere.

La scrittura dimostra una cura estrema nell’intrecciare la storia di Erica a quella di Henry, che piano si accorge di come Erica, forse una delle ragazze più problematiche che abbia incontrato, riesca a stargli vicino e volergli bene riuscendo ad offrire qualcosa e non solo ad essere aiutata da lui, sembra che quella bimba sperduta rappresenti quella luce infondo al tunnel dell’insegnamento, sembra che dia concretamente un motivo ad Henry per sentirsi “a guidance”. 
Ed è il distacco, che in altri momenti della vita sembra non avere senso, che porta Henry a sentirsi una “non-person” come dopo il suicidio della sua allieva, lo stesso distacco che rende impotente la vita di quel supplente, schiavo dell’abbandono da quando suo padre scomparve e sua madre morì; lo stesso distacco, nel caso di Erica è la scelta migliore, la scelta che può dare a lei un futuro, quell’unico centimetro di serenità del film è anche il centimetro che può dare a noi la sensazione di risolutezza della storia.

I momenti di poesia recitata o la carica espressiva degli attori danno la sensazione di nascondere dei sottotesti che credo invece siano del tutto esclusi. Non vedo allegorie o metafore del ruolo degli insegnanti nella scuola pubblica americana, non vedo simboli della rabbia e del disagio adolescenziale, non ci sono riferimenti alla solitudine, alla tristezza dell’ abuso sessuale o dell’impotenza dei “miserabili”. Queste cose le vedo come sono, non c’è poesia in questa pellicola c’è il racconto descrittivo nitido della tristezza di uno dei migliaia di luoghi nel mondo dove il mondo non gira. Anche i momenti più evocativi sono in realtà estremamente concreti come la scuola completamente vuota durante la serata di riunione genitori. Perfino l’opera d’arte di Meredith (la studentessa suicida) è molto meno evocativa di ciò che sembra ma estremamente concreta nel tipo di fotografie usate e nelle fisiche pennellate cariche di vernice di cui guardando il film si può quasi sentirne l’odore; forse questo modo crudo di raccontare e di vivere l’esperienze può essere il modo in cui tutti viviamo quando siamo feriti quando lasciamo spazio alla nostalgia e alla riflessioni più paranoiche, l’immaginario offerto dal regista non si avvicina emotivamente al nostro immaginario nel momento in cui il mondo ci chiude le porte in faccia?
Se fosse così, il distacco che vive un insegnante nel morire ogni giorno nella sua scuola, è il distacco che tutti viviamo nell’ aprire gli occhi su un mondo di “studenti perduti” con la speranza che prima o poi abbracceremo la nostra Erica.

venerdì 22 febbraio 2013

Promised Land


L’inquadratura dell’ “altro io”

Riflessioni su PROMISED LAND


Gus Van Sant ha un gusto preciso ed elegante per le inquadrature, prestando sempre una forte attenzione al collegamento con la storia che raccontano (da non dare sempre per scontato); credo sia grazie a questo che lo spettatore attraverso i personaggi può seguire delle vere e proprie “personalità” in gioco e non dei riferimenti generali.

La sensibilità della scrittura e della regia di questo film (soprattutto sulla recitazione) rende possibile stare dalla parte di Steve (Matt Damon) per tutto il tempo della narrazione pur sapendo fin dall’inizio che lavora per i “cattivi”, la Global una società  “da 9 miliardi di dollari” che ha l'obbiettivo di sistemare delle strutture di estrazione del gas in una cittadina di campagna.
Perché siamo dalla sua parte?
Perché sentiamo come un brivido di fastidio quando Dustin Noble, l’Ambientalista di turno, si presenta con una storia strappalacrime, cercando di rovinare le idee in cui crede Steve?

Steve, e Matt Damon con lui, è davvero convinto del suo mestiere. Lo dichiara con sincerità all'inizio del film, raccontando della morte economica sociale della cittadina  da cui proviene in seguito alla chiusura di uno stabilimento, concludendo il racconto con la battuta:
"io non gli vendo gas naturale gli vendo l'unica speranza di ricominciare".
La back story molto appropriata del protagonista ci permette di credere a nostra volta alla sua ingenuità, pensando:
“forse ha ragione! A quelle persone senza niente, povere, servono i soldi delle strutture per l’estrazione del gas, il rischio ne vale!”
sentiamo che la naturalezza prestata da Matt Damon al personaggio Steve, sta conquistando anche noi, la cosa probabilmente in poco tempo ci fa anche sentire un po in colpa.
Vorremmo stare dalla parte di Steve ma essere contrari al tipo lavoro perpetrato dalla sua azienda. Non capiamo perché il film ci presenti un personaggio così sincero per poi farlo combattere dalla parte sbagliata.

Questo piccolo dilemma interiore che nella prima parte del film investe lo spettatore, viene risolto facilmente: 
accettiamo il fatto che Dustin (l’Ambientalista) sia irritante e crediamo che la regia non ci permetta di empatizzare con lui per farci stare vicino a Steve, portarci nella storia della sua presa di coscienza.  La causa per cui lotta è sbagliata e tramite un percorso Steve aprirà gli occhi,  forse in tempo per redimersi.
Il problema è che questa riflessione iniziale è giusta solo in parte.

In realtà come nei libri scritti bene i sentimenti e gli elementi narrativi che la regia ci suggerisce all’inizio del film sono strettamente funzionali a cogliere la sottile sfumatura morale del finale in cui “…what once seemed black and white turns to so many shades of gray..” (Blood Brothers di Springsteen citato anche nel film),
il film ci offre un'impostazione mentale dove noi inizialmente possiamo distinguere il bene dal il male, ma durante lo sviluppo narrativo ci porta non solo a vedere sfumare questa distinzione ma anche a capire che non è la cosa più importante.


Una delle inquadrature più simboliche del film è il mezzo busto su Steve seduto al tavolo del colloquio al ristorante (prime scene del film). 
Dietro di lui si vede la sua immagine di spalle riflessa nello specchio e, sempre nel riflesso, davanti alla sua immagine di spalle, il suo interlocutore. 

Questa inquadratura sembrerebbe uno schema. 
Nel pratico noi vediamo Steve e il suo riflesso o meglio il suo “alter ego” (passatemi il termine) di spalle a lui che conversano, Steve con il superiore che gli sta offrendo un ruolo importante e l’alter ego con il riflesso del suo superiore. 
Non credo che il valore dell’inquadratura sia l’originalità ma semplicemente l’estrema coerenza con il personaggio che all’inizio del film viene presentato, Steve.
Sappiamo bene che durante la narrazione Steve avrà due uomini dentro di sé, uno che lo convince ogni giorno di essere una buona persona, perché crede che il suo mestiere può effettivamente migliorare la vita degli altri, e l’altro che fin dall’inizio gli pone il dubbio di non farsi semplicemente le domande giuste;
Steve contiene in realtà due personaggi in uno?
No, Gus Van Sant fa di più, crea davvero due personaggi.
Potrebbe essere che il personaggio dell’Ambientalista sia allo stesso tempo un “altro io” di Steve oltre che colui il quale per ovvie ragioni spinge avanti la storia? Io dico di si.

Ripensando alla sceneggiatura trovo emblematica la scena in cui dopo aver montato le strutture della fiera Steve si reca al solito pub del villaggio, soddisfatto e nuovamente speranzoso. Incontra Dustin seduto solo al bancone, il quale per la prima volta nel film è stanco e un po’ sotto tono, Steve intrattiene una veloce conversazione con lui peccando un po’ di arroganza e offrendogli addirittura una birra (come fosse elemosina), solo che alla fine del dialogo arriva Alice la maestra che Steve conosce le prime sere di permanenza, con la quale, si percepisce, Steve sente un legame. 
Alice è li per uscire con Dustin il che in pochi secondi ribalta completamente il gioco di forza su cui era basata quella scena. E’ doloroso per Steve quel momento perché è come se Alice credesse di più alla storia commovente dell’Ambientalista piuttosto che alla sincerità e all’essere “una brava persona” di Steve, quindi la vediamo uscire con l’alter ego (dustin) che si pone le domande giuste e non con lui. In quello snodo narrativo Steve sente che l'Ambientalista si vuole sostituire al suo essere protagonista ma non capisce ancora perché.
Quindi quell'inquadratura dedicata a Steve nel dialogo d’apertura del film (img sopra) racchiude uno schema mentale che il personaggio dovrà affrontare durante la storia. Nell'immagine c’è uno Steve che parla alle persone e ce ne’ un altro apparentemente opposto e di spalle che parla alle stesse persone, riflesse, con cui parla il primo. Potrebbe essere il riassunto della sfida tra Steve e Dustin che provano a convincere le stesse persone?

Mentre queste riflessioni s’intrecciano la narrazione avanza, e nel momento del colpo di scena, scopriamo che l’elemento dell' alter ego (l’ambientalista) spinge Steve a capire che si poneva le domande sbagliate.
Lui non deve prendere una decisione al posto della gente di quella cittadina e non deve neanche pensare a cosa sia giusto o sbagliato, questo perché tutto durante la narrazione gli ha suggerito che esistono “.. so many shades of gray..”:
L’anziano insegnante di scienze, ex ingegnere esperto, ammette che può permettersi di essere schierato perché comunque gli resterebbe poco da vivere (o da soffrire).

La Global in realtà insabbia davvero il fatto che le operazioni di frattura della roccia ed estrazione del gas possono portare a problemi tragici per la terra.

Entrando in contatto con la gente del posto durante le sue “visite di convincimento” coglie una certa superficialità sia dei favorevoli sia dei contrari.

Forse l’unica cosa che il vero Steve deve fare quindi per andare avanti è dire la verità e forse la storia ci porta a questa conclusione, grazie a questa sfida con il suo alter ego (o con se stesso?).
Il discorso finale di Steve rimane quindi semplicemente un “essere sincero” e niente di più, non  ci sono a parer mio da parte del protagonista dei veri giudizi ne verso la gente ne verso l’azienda che rappresenta.


Come scritto sopra le idee di sviluppo della storia vengono abbastanza rimescolate durante la narrazione. La regia cura bene questo rimescolamento stando molto vicino ai personaggi con la macchina da presa e con i continui cambi di fuoco.
Ci sembra sempre di empatizzare con chi parla anche se non siamo d’accordo con quello che dice, il che è una scelta e non una combinazione casuale. A questo proposito è incredibile scoprire che Gus Van Sant ci spinge ad essere irritati verso il personaggio dell’ambientalista (l’unico a parer mio con il quale non si empatizza) semplicemente per preparare il terreno dentro di noi, alla consapevolezza verso la quale ci porta il colpo di scena.

martedì 19 febbraio 2013

Noi Siamo Infinito (The perks of being a wallflower)


“Accettiamo l’amore che pensiamo di meritare”


Riflessioni su Noi Siamo Infinito (The Perks of being a Wallflower)




E’ complicato individuare un tema profondo in questa storia, il film è davvero affascinante perché rappresenta il risultato del mettere al servizio di una regia sensibile, di una sceneggiatura originale e di un’interpretazione seria dei personaggi, la tipica ambientazione del liceo americano, con il ragazzo problematico e timido che nel frastuono del mondo incontra la ragazza navigata, sveglia e stupenda. 
Individuare il tema dovrebbe essere l’aspetto più importante di un analisi, anche se entrare in questo racconto e nelle sue immagini fa svanire il bisogno di avere un nord ma desideri solo continuare a vivere nel mondo dipinto da Stephen Chbosky.

E’ bello pensare che anche Charlie, l’adolescente protagonista della storia, vive inconsciamente lo stesso processo insieme allo spettatore.

All’inizio la storia prende quella piega positiva per la quale Charlie e lo spettatore con lui, si perde nel fascino di amici nuovi stimolanti che non lo giudicano; tra loro Sam una ragazza stupenda all’ultimo anno in grado di volergli bene che ascolta gli Smith (il film è ambientato nei preziosi anni 90’), alla quale Charlie dedica anche delle compilation su musicassetta; 
Tutto questo primo momento dal quale non vorresti mai uscire non tiene conto di un prezzo alto da pagare, il passato del protagonista. 
L’aspetto interessante è che neanche Charlie ne tiene conto; in una delle lettere destinate ad un suo amico immaginario, nato nella sua testa dopo il suicidio del suo migliore amico avvenuto pochi mesi prima dell’inizio della storia del film, scrive:
“Caro amico scusa se non ti scrivo da un po’ ma mi sto impegnando a non essere uno sfigato…” 
L’amico immaginario di Charlie è il primo indizio lasciatoci dal Regista per dirci che i sentimenti di quel ragazzo non sono "normali" e che prima o poi nel film saremo costretti a capire il perché. Ma in questo momento nel quale stiamo ancora vivendo un piccolo American Dream sulla vita al liceo, Charlie e noi con lui parliamo direttamente al nostro subconscio e gli diciamo: “ehi non ho tempo per risolvere i drammi del mio passato, mi sto divertendo e mi piace la mia vita!!!” pensa Charlie, mentre lo spettatore considera: “non m’interessa se prima o poi la storia mi presenterà il conto adesso voglio solo che Charlie stia bene”.

E' sull’onda di queste riflessioni, sugli aspetti narrativi della prima parte del film che s’iniziano ad intrecciare le tematiche e significati delle immagini. Possiamo percepire per prima cosa che sia gli adolescenti problematici sia quelli  non problematici (ammesso che ce ne siano di non problematici!) amplificano la sensazione di ogni esperienza che vivono e hanno bisogno di comunicarne l’emozioni.
Questo rimane però il tema più semplice, già raccontato da diversi cammini di ragazzi/eroi nel cinema contemporaneo.
La sfumatura più profonda che ci offre la storia di questo film è diversa e giustamente parte da questo punto sereno e positivo della narrazione per risolversi nel finale con il colpo di scena.
Il protagonista per tutto il film rimane in balia di persone buone, che gli vogliono bene ma che non lo conoscono, non sanno la verità su di lui, compresi i suoi genitori. Tutti si relazionano a Charlie in modo sensibile interpretando i suoi segnali agendo di conseguenza, come del resto gli adulti moderni solitamente si comportano con dei ragazzi, il problema è che nessuno può realmente immaginare cosa nasconda il tessuto emotivo e traumatico di un adolescente, in relazione a quale ricordo o paranoia non risolta agisca, nel bene e nel male. 
Per tutta la narrazione pensiamo che i problemi di Charlie siano conosciuti dalla sua famiglia, la quale s’impegna comunque a stargli vicino senza capire che in realtà, c’è un motivo se la serenità di Charlie è passeggera. Nonostante le cure, la vicinanza, gli amici, appena qualcosa sul suo fragile percorso va storta si verificano delle ricadute. 
Pensiamo di trovare soluzioni ai problemi che vediamo che “sappiamo” vivere e bruciare nei ragazzi a cui vogliamo bene e che vorremmo aiutare a crescere, ma spesso non ci rendiamo conto che l’ostacolo è capire quale sia il vero problema da risolvere.

Io credo che la regia del film spinga su questo tasto; ci travolge spesso con i P.P. o Caracter Dolly sul protagonista (Charlie) o sulla co-protagonista (Sam- Emma Watson) ma senza mai darci davvero modo di capire cosa pensano, complice chiaramente la recitazione che è in questo caso adattata al tipo d’inquadratura (meraviglia!), o meglio pensiamo di sapere cosa pensano ma loro, i personaggi, hanno sempre qualcosa di particolare sotto che avevamo perso all'inizio. Un po' come con gli adolescenti nella vita vera?!

E’ interessante pensare che il tema profondo è suggerito abilmente anche attraverso il rapporto di Charlie con i due personaggi secondari più vicini a lui, Patrick  e Sam. Lo stesso Charlie continuerà a scoprire “traumi” che nascondono i suoi amici. 
I dialoghi più importanti in questo senso si svolgono tra Charlie e Sam.

Sam è una ragazza "disegnata". La sua personalità e il suo viso aprono un vortice in Charlie fin dal primo fotogramma. Ma non è questa la cosa importante. 
Charlie di Sam all’inizio immagina e al massimo ipotizza il passato e i sentimenti che prova, e si comporta di conseguenza per farla stare bene come gli altri fanno con lui, ed esattamente come gli altri con lui anche Charlie sbaglia. 
Nello scorrere della storia come gli spettatori con Charlie, anche lui con Sam capisce lentamente aspetti di lei che prima non poteva immaginare. 
Forte è il dialogo in cui lei riassume il modo in cui ha vissuto la sua sessualità iniziata molto presto, troppo presto e portata avanti in modo triste durante il liceo. Credo che anche in questo caso la sceneggiatura proponga delle ottime scelte sul personaggio di Sam, il fatto che nel suo passato si ubriacasse alle feste con i ragazzi e poi facesse “cose”, il fatto che questo atteggiamento parta da quando a 11 anni subì delle molestie dal capo del padre che andava spesso a trovarla, il fatto che lei voglia redimersi andando all’università,  dal modo svilente in cui il mondo maschile l’ha fatta vivere, sono tutti elementi coerenti con il suo personaggio, un personaggio che ha sempre fatto l’amore sostanzialmente per non essere sola.

Nel finale Charlie e Sam si salutano nella stanza di lei. 
Lei pensava di non essere davvero capita da Charlie, il quale invece già da metà film è consapevole di avere qualcosa di triste e forte in comune con lei (solo Charlie lo sa lo spettatore brancola amaramente nel buio), il loro confronto è significativo, Sam chiede a Charlie “ perché io e tutti quelli a cui voglio bene finiamo per scegliere persone che ci trattano male?” Charlie risponde (citando il suo insegnante di lettere) “Accettiamo l’amore che pensiamo di meritare”,
quindi non solo gli adolescenti hanno dei problemi più in fondo difficili da individuare e risolvere, ma loro stessi spesso si auto aiutano considerando solo i loro problemi in superficie senza decidere di vedere e capire problemi realmente autori del loro star male, in sostanza è quello che si può verificare in seguito a un trauma. E allora possiamo dirlo, gli adolescenti sono chi più e chi meno tutti traumatizzati, da cose gravi o leggere che non riusciamo ad individuare facilmente.

Da quello scambio di battute in poi quel dialogo prende un livello superiore di apertura tra i due personaggi, Sam dichiara: “ (Charlie) non puoi mettere la vita di tutti gli altri davanti alla tua e pensare che quello sia amore…”  poi continua
“io non voglio essere la cotta di nessuno, io voglio che alle persone piaccia la vera me...” tralasciando che in italiano l’ultima frase ha un suono retorico e vagamente fastidioso ( alla Moccia per intenderci), 
in realtà è perfettamente inserita nei discorsi del film, per aiutare stare vicino ad un/a ragazzo/a devi stare vicino al suo vero modo di essere, non ad ipotesi su di lui/lei, e per quanto riguarda Charlie, dovrebbe aprire la sua mente, non idealizzare Sam ma dirle quello che ha dentro, cosa che nel film avviene subito dopo! 
Anche se c’è un prezzo da pagare per aprirsi così e baciare la propria Sam, bisogna ricordare il passato e finalmente affrontare il vero problema che lo tormenta.

La regia, la fotografia e il montaggio sono davvero funzionali ai movimenti emotivi interni dei personaggi, basta pensare all’illuminazione della camera di Sam con quei grappoli di lucine bianche appese nella parete sopra al letto, i primi piani nei momenti importanti sempre ben staccati dallo sfondo rigorosamente sfuocato, gli stacchi sui flash back ben soppesati all’interno del film, e che nel momento del colpo di scena finale dopo il confronto tra Charlie e Sam prima descritto, sono davvero accurati per riprodurre il nodo alla gola che investe Charlie nell’aprire gli occhi sul suo passato. Per esempio la ripetizione di vari gesti, come la carezza della mano di Sam nell’interno coscia di Charlie, agente scatenate della sua presa di coscienza. Senza sottovalutare che in quel momento tengono giustamente sulle spine lo spettatore per capire quale sia verità.

Considerando veritiera l’idea che ognuno di noi guardando un film trova qualcosa di emotivamente diverso sul quale concentrarsi, e che se inconsciamente non troviamo niente, probabilmente il film non ci piacerà, questo film ha tanti aspetti emotivi in grado di catturare persone diverse fra loro, questo lo renderebbe, se fosse effettivamente guardato da qualcuno, un film davvero forte.


domenica 10 febbraio 2013

Moonrise Kingdom


Il cuore di un adulto e il coraggio di un adolescente, 
la fuga dei ragazzi.

Riflessioni su MOONRISE KINGDOM (link al film)


Moonrise Kingdom , esplora la depressione degli adulti e le passioni dei ragazzi.
Wes Anderson riprende molti degli strumenti registici che negli ultimi anni sono stati siglati con il suo nome, e si lascia andare ad una composizione per immagini precisa e coerente, panoramiche a schiaffo, totali simmetrici, carrelli descrittivi.

Le figure intorno ai protagonisti (soprattutto gli adulti) trasmettono la sensazione di essere positive o per lo meno di seguire un percorso positivo; riusciranno nonostante siano degli abbandonati, repressi, depressi  iracondi ecc… a compiere qualcosa di buono per gli altri.
Solitamente i protagonisti di una storia sono i personaggi che affrontano una maggiore trasformazione (positiva o negativa), in questa storia è curioso notare che i ragazzini dall’inizio alla fine hanno rincorso il loro obiettivo affrontando un cambiamento e una trasformazione minori rispetto al cambiamento sopportato dagli adulti principali implicati nella narrazione. Sam e Suzy vogliono stare insieme per fuggire dall’ incomprensione degli ambienti che gli ospitano e che gli hanno cresciuti, durante l’alternarsi degli eventi impareranno a fidarsi degli adulti, il che è un gran cambiamento, ma il loro scopo, il loro modo d’essere e di guardarsi, rimane invariato e solido come anima di cemento del film; i punti di riferimento “adulti” del film?
Captain Sharp deciderà di seguire la sua innata empatia per Sam adottandolo.
Walt e Laura Bishop (genitori di Suzy) saranno costretti ad affrontare i loro problemi coniugali e personali e alla fine aiuteranno il poliziotto ad adottare Sam grazie ad una repentina e fulminea consulenza legale.
Lo Scout Master Ward ha imparato che molto di quello che non si può capire dalla scheda di un ragazzo forse è scopribile parlando con lui.
Dovremmo concludere che in questa pellicola come al solito i grandi devono crescere più dei piccoli per stare bene? Si dovremmo!

I ragazzi; le loro battute e le loro azioni ci spingono a capire che quando sei a conoscenza di cosa ti fa stare bene allora hai poco margine di crescita, devi solo lottare. Sam e Suzy sono chiari, sinceri e molto più consapevoli di gran parte degli adulti, su cosa debbano raggiungere per stare bene; così come il resto dei giovani scout quando sarà il momento di prendere coscienza e di capire che lavorare per la felicità di un compagno è un azione importante e onorevole, non avrà più dubbi su quale sia il loro compito (aiutare Sam e Suzy nella fuga).
Sono gli adulti che come sempre s’invischiano in dubbi e controproducenti atteggiamenti nei confronti della vita, non sanno cosa desiderare per stare bene; si sentono soli ma non fanno niente per avvicinarsi agli altri, sentono lontano il partner di una vita ma non ne parlano, incolpano i figli del fatto di non sapersi relazionare.
Il capo scout alla domanda “che lavoro fa nella vita?” risponde “il professore di matematica!”
pausa, ripensamento, aggiusta la risposta “no il mio lavoro è fare il capo della compagnia 55, poi sono un professore di matematica”, questa battuta è quanto meno efficace, non tanto perché denota i capi scout come dei nerd senza una vita privata, ma perché ci offre uno degli spunti di riflessione del film:
che tipo di risposta necessita da un adulto la domanda “cosa fai nella vita?”,
quella data con raziocinio o quella data con l’istinto?
Credo che la differenza sia dovuta anche a chi pone la domanda e quanta sincerità sia realmente richiesta nella risposta, nel nostro caso la domanda la fa un ragazzo, e quindi la risposta non può essere complicata, non può essere fintamente razionale e adulta, dev’essere quella che al ragazzo arriverà più forte e dev’essere quella più onesta per il nostro capo scout. Siamo abituati da adulti a dare le risposte più corrette per non affrontare quelle più sincere e soprattutto siamo abituati a non rivolgerci mai le domande giuste.

Sam e Suzy, rispecchiano tanti sogni che iniziano con la preadolescenza e finiscono con la maturità, anche se la particolarità della pellicola è dar vita a due personalità indubbiamente precoci. Un ragazzino alle medie forse può solo immaginare di voler scappare con una ragazza, nella realtà cerca conforto nei gruppi di coetanei più vicini a lui ovvero altri ragazzini! Lo stesso vale per Suzy e le ragazzine. Ma nel film è diverso. A volte si sceglie di raccontare favole, e in questo caso la favola parla di due ragazzini che hanno il cuore di un adulto e il coraggio di un adolescente e quindi si lanciano nella fuga. La cosa davvero speciale è che nella pellicola il regista sceglie di edificare queste particolari personalità su due ragazzini che altro non sembrano se non dei veri ragazzini (perché lo sono entrambi, gli attori avevano 12 anni), permettendoci di empatizzare con loro, sentendoci a metà strada tra il mondo degli adulti e quello dei bimbi. Il realismo non deve esistere in una narrazione di questo tipo, semplicemente non sarebbe uno strumento adatto a raggiungere lo scopo del film.

Due battute potrebbero racchiudere senza altre spiegazioni i sentimenti del film.
Suzy si arrabbia con Sam quando mostrandogli il libro rubato ai suoi genitori dal titolo “Coping with a Troubled Child” (affrontare un bambino problematico) scatena in lui una stupida risata, lei scappa in tenda in lacrime come se la loro magia fosse per un attimo scomparsa, ma pochi istanti dopo Sam aprirà quella cerniera dichiarando “Io sono dalla tua parte”,
Cosa significa “sono dalla tua parte”?
quando quello che proviamo può essere racchiuso in questa frase?
Per Sam e Suzy vuol dire credere che l’uno per l’altra non saranno mai sostituibili. Vedere i difetti le follie o le stranezze di chi hai davanti e condividerle per assimilarle nel tuo modo di vivere.
Se non è maturità emotiva questa!
La seconda battuta da ricordare, è inserita nel dialogo di Sam e Suzy sullo scoglio dal quale si vede tutta la spiaggia del loro accampamento segreto.
Il momento, che segue il regalo degli orecchini scarabeo da parte di Sam a Suzy, è reso ancora più forte dall’utilizzo dei primissimi piani dei ragazzini, per niente scontato per Anderson che ha fatto dei totali una filosofia di vita. Suzy e Sam stanno parlando delle loro situazioni di vita, Suzy afferma che avrebbe voluto essere orfana come lui, meglio non avere dei genitori che averli e non essere capiti. Sam dopo averla ascoltata, con gentilezza la fissa dicendole : “ Ti amo, ma non sai di cosa stai parlando”, questa è una di quelle frasi che vorremmo dire e sentirci dire nello stesso momento. Non esiste il momento in cui capiremo davvero tutte le sfumature della persona che amiamo, ma esiste il momento in cui permettiamo alla persona che abbiamo davanti di capire che l’amiamo e che sappiamo di essere amati. In quel momento possiamo dire ed ascoltare cose senza senso, esagerate o semplicemente superficiali ma saremo consapevoli di “essere dalla stessa parte”.

Per concludere, ho la sensazione che questo film mostri quanto i personaggi più giovani se costruiti bene e con passione, possano parlare direttamente con i sottotesti senza risultare patetici. Davvero ammirevole ed emozionante.